Paris Match: quattro pagine per les prisonniers pâtissiers

 

Eccezionale servizio di Paris Match, uno dei periodici più noti, diffusi e autorevoli della Francia. Il reportage sui prigionieri pasticceri sottolinea gli esiti del modello Giotto e li mette a confronto con l'uso, quasi sempre esclusivamente repressivo, della carcerazione in Francia. Ecco i profili degli autori e una nostra traduzione, qui accanto il messaggio molto carino che Emmanuelle e Jean-François ci hanno inviato.

 

Emanuelle Jary ha fatto studi di etnologia della cucina, poi ha conseguito un DEA (Diplôme d’Études Approfondies) sulla storia della cucina con una tesi sul tartufo. Collabora da anni col fotografo Jean- François Mallet, con il quale ha pubblicato tra l’altro gli otto volumi di Le vrai goût du Monde, 400 recettes: Italie; Espagne; Mali; Liban; Maroc; Viêtnam; Grece; Japon. Tra le altre sue pubblicazioni citiamo Recettes d’automne, Verrines tapas et transparence, Un amour de macaron. Come giornalista collabora dal 1999 con testate quali Saveurs, Paris Match, Sport&Style, Viamichelin, Air France magazine e come autrice e redattrice per le edizioni Solar, Hachette Pratique, Lamartinière, Glénat, de Borée, Saep, Editions de l’Epure.

 

Jean-François Mallet è responsabile della scuola superiore di cucina francese “Ferrandi”. È stato chef in ristoranti di altissimo livello, lavorando con grandi chef come Michel Rostang, Michel Kéréver, Gaston Lenôtre, Gioele Robuchon, prima di lanciarsi nell’altra sua passione: la fotografia. Grande reporter, si è specializzato nella fotografia culinaria e di viaggio. Percorre il mondo per sorprendere dal vivo i piatti del mondo intero e quelli che li creano. Tra i suoi libri più recenti, tutti best-seller, citiamo Viandes, Légumes, Du boeuf et des patates, Chinatowns, Simplissime - Le livre de cuisine le + facile du monde (un vero caso editoriale in libreria e su internet), Poissons, Bollyfood.

 

 

LEGGI IL SERVIZIO DALLE PAGINE DI PARIS MATCH

 

 

LA NOSTRA TRADUZIONE DELL'ARTICOLO

 

 

 

Paris Match, 11-17 febbraio 2016, pp. 121-124, Les prisonniers pâtissiers (servizio di Emmanuelle Jary, foto di Jean-François Mallet)

 

 

 

I detenuti pasticceri

 

 

 

Dietro le sbarre creano dolci. Mentre le carceri sono considerate come i luoghi per eccellenza della grande delinquenza, nel nord Italia un’azienda rimette i detenuti sulla buona strada attraverso il lavoro. Condannati a pene lunghe per reati molto gravi, dopo anni di formazione, questi uomini si trasformano e il tasso di recidiva si riduce in modo spettacolare.

 

 

 

Sono le cinque quando i primi aromi di focacce e brioches riempiono la pasticceria Giotto. Come in tutte le pasticcerie, uomini vestiti con grembiuli bianchi con un berretto di carta sulla testa sono indaffarati, chi alla preparazione di biscotti di pastafrolla, chi a togliere dallo stampo una crostata di frutta, chi a ultimare appetitosi pasticcini...

 

Come in ogni pasticceria, una radio protetta da una pellicola di plastica diffonde canzoni popolari. Nulla da segnalare o quasi. Le finestre hanno le sbarre. Agenti di polizia penitenziaria controllano i documenti di identità dei visitatori che vengono perquisiti prima di entrare. Telefoni, computer portatili e denaro in contanti sono proibiti. Siamo nel carcere di Padova, uno dei dieci più grandi d’Italia. Più di seicento persone vi sono detenute. La maggior parte sta scontando lunghe condanne. Omicidi, rapine, rapimenti, sequestri... i pasticceri Giotto non erano angioletti. Ma ne possiamo parlare al passato, se consideriamo fino a che punto qui il lavoro addolcisce gli animi. Anche se non ci sono dati ufficiali, Nicola Boscoletto afferma senza battere ciglio: «Quando i nostri dipendenti escono dal carcere, la loro recidiva è stimata al 2%, mentre per gli altri detenuti in Italia varia tra il 70% e il 90%». Nicola Boscoletto è il presidente di Officina Giotto, un consorzio di due cooperative che impiegano 150 detenuti del carcere. Questi ultimi lavorano all’interno di vari laboratori, pasticceria, riparazione di biciclette, assemblaggio di valige, di chiavette usb, digitalizzazione di documenti per diverse aziende, call center per prendere appuntamenti all’Ospedale di Padova...

 

Il lavoro così favorisce il reinserimento. Ma non qualsiasi lavoro. In Francia, la questione è controversa. Nel settembre 2015, una petizione firmata da 375 docenti universitari, soprattutto da specialisti di diritto e di lavoro, ricordava le regole penitenziarie europee: «L’organizzazione e i metodi di lavoro negli istituti devono assomigliare il più possibile a quelli che regolano i lavori analoghi al di fuori della prigione, per preparare i detenuti alle normali condizioni della vita lavorativa». Chiamato in causa su questa questione del rispetto del diritto al lavoro in carcere, il Consiglio costituzionale ha stabilito che la legislazione vigente rispettava la Costituzione. Tuttavia i detenuti francesi non firmano alcun contratto, non hanno il sussidio di disoccupazione, non hanno le ferie pagate, per loro non è prevista alcuna medicina del lavoro, nessun sussidio in caso di malattia, nessun diritto di sciopero né di adesione al sindacato. Sono pagati tra il 20% e il 45% del salario minimo orario. Sono stati rilevati casi di salari indecenti, che ammontavano a meno di 2 euro all’ora. Infine i detenuti non hanno alcuna garanzia per quanto riguarda il numero di ore e di giorni di lavoro mensili. La maggior parte, che non ha mai esercitato alcun mestiere prima di entrare in carcere, ne esce con una percezione negativa del lavoro e associa lavoro a umiliazione. Come potrebbe essere altrimenti quando i direttori degli istituti descrivono così le attività proposte ai detenuti: distinguere viti a croce da viti normali, oppure aprire dei cartoni e applicargli il nastro adesivo per renderli pronti per l’uso...

 

Philippe Auvergnon, giuslavorista e direttore di ricerca al CNRS, sottolinea un punto importante: «L’amministrazione penitenziaria considera il lavoro come lo sport, cioè uno strumento per mantenere la pace sociale. Per quanto riguarda i detenuti, tutti vogliono lavorare, anche se dicono che sono sfruttati e in effetti lo sono, ma il fatto di lavorare li tiene occupati e dà loro una certa autonomia». E in effetti è impossibile vivere in carcere senza denaro, ti permette di acquistare articoli per l’igiene personale, sigarette, libri... per “cantiner” (mettere da parte qualcosa, ndt) come si dice nel gergo del carcere.

 

A Padova, Dinja non si limita a “cantiner” con il suo stipendio di 900 euro netti, lui in parte li invia a due organizzazioni umanitarie in Uganda per contribuire all’educazione dei bambini. Prima di lavorare con Officina Giotto era in isolamento forzato perché considerato violento contro se stesso, il personale del carcere e gli altri detenuti. «Nessuno mi poteva avvicinare. Restavo nella mia cella, i giorni non passavano mai, volevo uccidermi. All’inizio è stato molto difficile. Non avevo mai lavorato e volevo guadagnare soldi facilmente, ma i formatori e tutto il personale Giotto mi circondavano per motivarmi e calmarmi. Io non capivo il motivo per cui queste persone stavano facendo questo, a me che ero stato così violento e cattivo. Oggi io amo questo lavoro, è come una rinascita». Condannato all’ergastolo per due omicidi, Dinja è in prigione da tredici anni, starà ancora in carcere per molto tempo. Proprio pensando alla durata della sua pena, non osiamo chiedergli che cosa farà una volta uscito. Una domanda che invece poniamo a Francesco, 47 anni, in carcere dal 1993, che dovrebbe uscire nel 2020. Arrivato a Padova nel 2003, è stato in precedenza in carcere a Lecce, in Puglia. Lì rimaneva in cella ventidue ore su ventiquattro. Senza far nulla, né voler fare nulla. Aspettava. Ma cosa ci si può aspettare quando si resta rinchiusi quasi trent’anni? A Padova ha iniziato a studiare, poi a lavorare: prima, per quattro anni, nel call center e poi di recente è arrivato in pasticceria. «Oggi ho dei progetti. Ho parlato con mio figlio e mia sorella e vogliamo aprire una pasticceria nel Nord Italia. Voglio iniziare una nuova vita». Anche Guido, condannato all’ergastolo, racconta l’evoluzione dei suoi rapporti familiari da quando ha cominciato a lavorare. «Sono riuscito a dialogare, a confrontarmi con le idee dei miei colleghi. Ora parlo con mia figlia e contribuisco a pagare le sue tasse universitarie». Guido ha imparato a leggere in carcere. Così ogni sera può evadere senza saltare al di là delle mura. Le sue parole ci sono tradotte da Franco, originario del Piemonte, che parla un buon francese per aver frequentato il carcere di Baumettes a Marsiglia e anche i penitenziari di Nizza e Lione.

 

Incarcerato in seguito nei Paesi Bassi, per rapimento e sequestro di persona, è fuggito da questa prigione e ha trascorso diciannove anni in fuga. Arrestato nel 2004, era considerato molto pericoloso ed è stato inserito in una sezione di massima sicurezza. Come questo uomo così tranquillo e raffinato, con indosso una bella camicia a righe blu e un elegante piccolo foulard intorno al collo ha potuto risultare schedato nelle liste dei maggiori esponenti della criminalità organizzata? «In passato non avevo la possibilità di lavorare perché ero considerato pericoloso. L’unica cosa a cui pensavo è stata: come evadere? Arrivando a Padova, sono cambiato grazie al lavoro. Ora sto bene e quanto al mio passato ho girato pagina».

 

Ci avviciniamo a Elvin che ha appena tirato fuori i suoi panettoni dal forno. Li rigira a testa in giù, in modo che la pasta non si sgonfi verso il basso. «La pasticceria è questione di dettagli, ma se tu rispetti la ricetta, ce la fai. Il panettone è più complicato di altri dolci a causa della lievitazione. L’impasto è qualcosa di vivo e come tutte le cose viventi, è imprevedibile», ci spiega. Condannato per omicidio, lavora da otto anni nella pasticceria Giotto. Ha 37 anni, di cui dodici passati dietro le sbarre e non aveva mai lavorato prima di arrivare a Padova. La pasticceria ha cambiato la sua vita: e non per modo di dire. Piccolo, cranio rasato, il suo sguardo non molla mai quello dell’interlocutore, al punto di metterlo un po’ a disagio. Nonostante il fatto che si sia un po’ calmato, mantiene una certa arroganza e si può immaginare che i colpi di manganello non abbiano avuto molto effetto su di lui. Il lavoro sì, però. «Quando ho avuto il mio primo permesso, beh, non sarei mai tornato la sera, se non fossi stato pasticcere per la Giotto». Dopo l’uscita dal carcere, Elvin vuole tornare a casa in Albania e aprire una pasticceria, come ha fatto un altro detenuto, che ha creato una sua azienda dopo aver capito tra queste mura che si tratta di un lavoro reale e bello. È solo a questa condizione che il lavoro diventa uno strumento di riabilitazione. Secondo Paolo Massobrio, fondatore della prestigiosa guida gastronomica “Il Golosario”, «i panettoni del carcere di Padova sono classificati tra i migliori dieci in Italia. Abbiamo recensito anche i loro biscotti e gli eccellenti gelati artigianali. La qualità del prodotto è molto importante per la rieducazione dei detenuti che ne sono più degni».

 

Nei laboratori Giotto alla nobiltà del compito e alla qualità dell’apprendimento si aggiunge il rispetto del diritto del lavoro. Come gli altri dipendenti della cooperativa, i 150 detenuti firmano un contratto che garantisce loro lo stesso salario rispetto all’esterno, ma anche tutti i diritti che ne derivano: le assenze per malattia, la disoccupazione, la pensione, il diritto di sciopero, che d’altra parte ben difficilmente viene rivendicato. Uno dei responsabili osserva con ironia: «Sono dipendenti laboriosi e non vanno mai in sciopero perché qui è più piacevole lavorare piuttosto che rimanere in cella».

 

Un modello vantaggioso per entrambi: i detenuti e la società, alla luce dell’abbassamento del tasso di recidiva. Perché non è più diffuso in Italia e altrove?

 

Il presidente del Consorzio Giotto, Nicola Boscoletto, ha una sua spiegazione. Il sistema carcerario non crede nella rieducazione dei detenuti, si tratta di un ambiente molto chiuso.

 

In Francia si sente dire spesso che le aziende se ne sarebbero andate dalle carceri se il diritto del lavoro fosse entrato in carcere e avessero dovuto pagare i detenuti come dipendenti liberi. Eppure sono previsti incentivi fiscali per attrarle. E l’amministrazione penitenziaria mette gratuitamente a disposizione i locali. Giotto invece ha sviluppato un business fiorente che consegna i propri dolci nei più grandi alberghi in Italia, ha appena aperto una gelateria nel centro di Padova e addirittura prevede di aprire un’altra pasticceria a Lisbona. Questa sarà gestita da ex detenuti. Infine, Giotto possiede un ottimo ristorante nel quale il pizzaiolo è un detenuto in semilibertà. Ma i camerieri non temono la presenza di un uomo precedentemente classificato come pericoloso? Il fatto è che nessuno nota la differenza tra questo e un altro pizzaiolo. Anche Rino è in semilibertà. Al volante di un furgone, consegna tutti i giorni i vassoi di Giotto con i pasti per le imprese e le comunità. L’idea di svignarsela con il suo furgone forse una volta gli è passata per la mente, «ma dopo dieci anni di reclusione, con una bel mestiere e più di sei anni di pena, bisognerebbe essere matti per buttare tutto all’aria». Certo, occorre dare fiducia, ma non è la cosa più difficile da dare a questi uomini trasformati dalla loro attività professionale.

 

C’è una barriera morale. Se da una parte il carcere dovrebbe privare solo della libertà, è però un’idea diffusa ovunque, nella mente di tutti, che il tenore di vita di una persona condannata deve essere inferiore allo standard di vita più basso di una persona libera. Una constatazione che Philippe Auvergnon riassume così: «Quando sarete in prigione, dovrete provare le pene dell’inferno in tutti i campi, sia per il vitto, sia sul fatto di sapere se lavorerete, sia sul lavoro che vi troverete a fare».

 

Ed è vero, dopo tutto: è veramente concepibile che questi uomini siano felici? Le famiglie delle vittime apprezzano di vedere i detenuti che sorridono con bei panettoni dorati tra le mani? Salvatore Pirruccio è stato nominato al prestigioso incarico di vice-ispettore dell’amministrazione penitenziaria nel Nord Italia ed è stato direttore del carcere di Padova dal 2002 al 2015. Ha ospitato molte conferenze che riunivano insieme le vittime e i detenuti e che spesso prevedevano visite ai laboratori. Pirruccio cita la figlia di un politico assassinato dalle Brigate Rosse nel 1974, quando aveva solo 4 anni; è divenuta assistente volontaria in prigione per aiutare i detenuti.

 

«In un primo momento, continua, le associazioni delle vittime pensano che i detenuti debbano marcire in carcere e non lavorare, né tanto meno uscire di prigione. Ma cambiano punto di vista dopo aver visitato i laboratori di Giotto. Capiscono che il lavoro in carcere può ricreare un legame con la società. Perché, anche se questi detenuti hanno commesso atti gravissimi, non sono delle bestie». In effetti, sono proprio degli esseri umani quelli che abbiamo incontrato, stranamente fragili alcuni, per i quali l’emozione affiora a ogni risposta. Altri sono sereni e felici e si dichiarano come tali, come Davor, ergastolano, che vive il suo lavoro come una vera e propria redenzione.

 

Certamente non siamo tutti capaci di perdonare. Non siamo tutti come Papa Francesco, il quale, appena eletto, è entrato in una prigione per celebrare la messa e lavare i piedi dei detenuti.

 

Fra l’altro papa Francesco compra i panettoni di Giotto per i suoi regali di fine anno. Ma se la preghiera accompagna tanti detenuti, Nicola Boscoletto, anche lui comunque fervente cattolico, non dubita per un attimo che un lavoro intelligente rimanga la soluzione migliore per ridare la dignità ai detenuti e aiutarli a reinserirsi nella società. Quello che abbiamo visto a Padova lo dimostra. Mentre mettevamo da parte i nostri pregiudizi, abbiamo anche dimenticato che eravamo in prigione. Ed è con una visione radicalmente diversa del criminale che abbiamo concluso il nostro reportage; fino al punto di dare il nostro numero di cellulare a un detenuto che ce lo chiedeva. Tutta la società si deve saper evolvere per progredire.

 

Al momento di andarcene, come se facesse apposta, la piccola radio della pasticceria, ricoperta con un una pellicola di plastica diffonde una canzone francese. Lasciamo la prigione con le parole di Edith Piaf, «No, nulla di nulla, no, non rimpiango nulla. Né il bene che mi è stato fatto, né il male, tutto questo per me è uguale. È pagato, spazzato via, dimenticato, me ne fotto del passato».

 

 

 

Tutti i paesi vengono a studiare il metodo di Giotto... tranne la Francia!

 

 

 

In Italia, l’esempio di Officina Giotto rimane un’eccezione. Ci sono altre cooperative sociali che impiegano detenuti con buone condizioni di lavoro, in particolare a Roma e a Torino per la produzione di cioccolato, caffè e vino, ma sono solo piccole strutture. All’estero, Bruno Abate, chef italiano, con sede a Chicago, ha visitato due volte il carcere di Padova per capire il modello e cercare di attuarlo in una prigione degli Stati Uniti. Attualmente insegna ai detenuti a fare le pizze attraverso la sua associazione Recipe for Change. Alcuni membri dell’Associazione per la protezione e l’assistenza ai condannati (Apac) sono venuti dal Brasile per visitare i laboratori di Padova. Lo stato brasiliano ha poi redatto un documento ufficiale di politica sociale chiedendo a tutte le carceri di implementare opportunità di lavoro sul modello di Giotto. Ad oggi, anche il Cile e Venezuela sono interessati a questa esperienza. E la Francia? Nessun membro dell’amministrazione penitenziaria si è recato alla prigione di Padova. E se esiste qualche esempio di lavoro interessante, l’amministrazione penitenziaria francese è comunque molto restia a comunicare con l’esterno su queste problematiche.

 

 

 

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