Reciprocamente.net, lavoro e carcere tra Europa e America Latina

 

Reciprocamente.net è uno strumento ideato e gestito dal Programma EUROsociAL dell’Unione europea, una piattaforma virtuale progettata per promuovere la comprensione reciproca tra l’Europa e l’America Latina in termini di politiche sociali. Ogni mese la relativa newsletter su un argomento specifico viene inviata in spagnolo e inglese a una mailing list di oltre 5.000 funzionari pubblici di Europa e America latina. Nel mese di ottobre 2015, la testata si è concentrata sulla questione delle politiche che favoriscono l’occupazione dei gruppi vulnerabili, ospitando un intervento di Nicola Boscoletto dal titolo ¿Trabajo en la cárcel? sí, si es trabajo verdadero, de lo contrario es inútil (Lavoro in carcere? Sì, se è lavoro vero, altrimenti è inutile). Nella stesso numero monografico c’è anche un intervento di grande valore del magistrato brasiliano Luiz Carlos Rezende e Santos dal titolo A ressurreição do preso pela inserção no mercado de trabalho (La resurrezione del detenuto in vista dell’inserimento nel mercato del lavoro). Vi proponiamo la traduzione italiana dell’intervento di Boscoletto.

 


 

Per approfondire le tematiche dell’articolo, proponiamo alcuni link (presenti anche nel testo):

 

Lavoro e perdono dietro le sbarre, la Cooperativa Giotto nel carcere Due Palazzi di Padova: uno studio condotto dal CESEN (Centro Studi sugli enti ecclesiastici e altri enti senza scopo di lucro dell’Università Cattolica) grazie al finanziamento del Fetzer Institute e coordinato dal professor Andrea Perrone sul metodo adottato della Cooperativa sociale Giotto nella casa di reclusione di Padova, in linea con il modello della cooperazione sociale italiana

link in italiano http://bit.ly/1PkEHDD
link in inglese http://bit.ly/1PkELmX)

 

Carcere e lavoro: un dialogo internazionale su un approccio innovativo di riabilitazione, programma e testi dei saluti istituzionali del convegno di mercoledì 20 maggio 2015, Carcere di Regina Coeli, Roma

link in italiano http://bit.ly/1G9Kz0O
link in inglese http://bit.ly/1G9KKsP
link in spagnolo http://bit.ly/1G9KKcu

 

Officina Giotto, quando il lavoro rende liberi, video realizzato dalla filmmaker Diletta Grella per l’Archivio della Generatività italiana girato all’interno del carcere di Padova

link in italiano http://bit.ly/1G9KGJN
link in inglese http://bit.ly/1G9KM47
link in spagnolo http://bit.ly/1G9KQkh

 


 

Reciprocamente.net, ottobre 2015, Lavoro in carcere? Sì, se è lavoro vero, altrimenti è inutile

 

di Nicola Boscoletto

presidente Officina Giotto – Padova (Italia)

 

 

Cosa si potrebbe dire di una fabbrica che produce un 70% di pezzi difettosi, di una scuola nella quale il 70% degli alunni viene bocciato o ancora peggio di un ospedale da cui il 70% dei pazienti non esce vivo? Cambiate a piacere i settori di applicazione, la risposta sarebbe sempre la medesima: è un fallimento, uno scandalo che produrrebbe la cacciata immediata dei manager, dei presidi e dei direttori sanitari. Ora proviamo a immaginare per un attimo che tutte le fabbriche, le scuole e gli ospedali di un paese producano questi disastrosi risultati.

 

È quanto avviene con il carcere, l’istituzione che dovrebbe restituire alla società persone diverse, cambiate, migliori di come sono entrate. E non solo per un paese, ma in tutto il mondo. Nord e sud del pianeta, paesi ricchi e poveri: ovunque senza eccezioni (o quasi, come vedremo), dalla galera si esce per rientrarvi quanto prima.

 

Il carcere in tutto il mondo è un business di prima grandezza perché comporta costi di ogni genere che si ripetono ciclicamente ogni anno. Oltre alla costruzione degli istituti, il mantenimento richiede spese enormi. Gli importi variano ampiamente in tutta Europa, con punte in alcuni paesi di 685 euro al giorno per detenuto. Le 45 amministrazioni europee che hanno fornito dati alla ricerca SPACE I dell’Unione Europea nel 2012 avevano speso più di 26 miliardi di euro per le esigenze penitenziarie. La cifra oltretutto comprende solo i costi diretti, quindi la spesa reale è di gran lunga maggiore.

 

Di quali spese si parla? Certamente quelle di vitto, alloggio e non solo per detenuti e agenti, spese per le utenze (acqua, gas, elettricità), per le divise stagionali degli agenti. Poi ci sono le spese per le armi: ogni anno si acquista una quantità di munizioni incredibile per le esercitazioni del personale. Si devono considerare inoltre i costi relativi ai mezzi blindati di ogni ordine e grado per i trasferimenti dei detenuti, mezzi che naturalmente poi hanno bisogno di rifornimento e manutenzione. Pensiamo poi alle attività scolastiche, ricreative, educative, sportive; a tutte le spese di tipo sanitario, con un dispendio incredibile di farmaci, psicofarmaci in testa. Non parliamo poi delle spese per la tecnologia, soprattutto per le esigenze di sicurezza.

 

Mi fermo qui per non dilungarmi troppo e risultare noioso, però è obbligatorio citare la voce principale, relativa al personale (agenti di polizia per la quasi totalità), peraltro caratterizzato quasi ovunque da un altissimo tasso di sindacalizzazione, con un’abnorme proliferazione di sigle sindacali (in Italia 17 organizzazioni per circa 40mila agenti di polizia penitenziaria) e relativi costi e appesantimenti burocratici. Mediamente per ogni detenuto in Italia si spendono complessivamente circa 250 euro al giorno, gran parte dei quali destinati alle spese per il personale.

 

Questa incapacità di adempiere al loro scopo rivela, inoltre, che in maniera più palese o subdola, in tutto il mondo le carceri sono luoghi di violenza, abbrutimento, luoghi in cui l’uomo non è considerato come persona, in cui scompare la dignità e ogni diritto viene calpestato.

 

Tutto ciò ci porta a un’altra considerazione: è fallita l’equazione (mai veramente dimostrata oltretutto, anche se sembra un dogma universalmente accettato) tra pena e carcere. Rimanere anche decenni in carcere non coincide con lo scontare la pena, se non nel senso dell’esecuzione formale e meccanica di una sentenza. In termini di consapevolezza, cambiamento, reinserimento il carcere non provoca risultati apprezzabili. Questa equazione in tutto il mondo ha generato una recidiva tra il 70 e il 95%. Ciò significa che una percentuale compresa tra il 70 e il 95% di chi termina di scontare la pena torna a delinquere, commettendo delitti ancora più gravi del primo reato commesso. E solo per problemi di insostenibilità economica del sistema-carcere si inizia oggi a pensare a soluzioni alternative.

 

Paesi asiatici, africani, europei, latinoamericani, Cina, Russia e Stai Uniti si trovano tutti a condividere dati estremamente negativi per quanto riguarda la situazione carceraria. Eppure qualche piccolissima eccezione sparsa in tutto il mondo esiste. In Italia e in Brasile, ad esempio, esistono esperienze di portata limitata ma che da decenni producono risultati eccellenti. A tale proposito riportiamo due link, uno relativo ad uno studio condotto dal CESEN (Centro Studi sugli enti ecclesiastici e altri enti senza scopo di lucro dell’Università Cattolica) grazie al finanziamento del Fetzer Institute e coordinato dal professor Andrea Perrone sul metodo adottato della Cooperativa sociale Giotto nella casa di reclusione di Padova, in linea con il modello della cooperazione sociale italiana (link Working Paper in italiano http://bit.ly/1PkEHDD link Working Paper in inglese http://bit.ly/1PkELmX); link convegno in italiano http://bit.ly/1G9Kz0O link convegno in inglese http://bit.ly/1G9KKsP, link convegno in spagnolo http://bit.ly/1G9KKcu) e un video girato sempre all’interno del carcere di Padova (link in italiano http://bit.ly/1G9KGJN, link in inglese http://bit.ly/1G9KM47, link in spagnolo http://bit.ly/1G9KQkh).

 

Le esperienze che producono i migliori risultati hanno due fattori in comune. Il primo è una ben precisa concezione di uomo, di persona, il secondo è l’importanza attribuita al lavoro. Per ricordare una frase cara a papa Francesco - da lui ripetuta ormai decine di volte - «solo il lavoro dà dignità». Purché sia un lavoro vero, che comporta parimenti diritti e doveri, regolarmente retribuito, allineato alle specifiche del mercato, dai mansionari ai contratti, che punta alla qualità dei processi e dei prodotti e si confronta con le eccellenze dei rispettivi settori.

 

Tutti i tentativi, molti ancora in corso in ogni parte del mondo, di far lavorare i detenuti con forme antiche o moderne di sfruttamento non hanno portato frutto in nessun continente. È sotto gli occhi di tutti da anni il fallimento di un sistema che fa lavorare le persone senza retribuirle, o con retribuzioni irrisorie. Non giustifica questa pratica l’appellarsi al fatto che il detenuto è un costo e quindi sulla carta lo si paga ma poi l’amministrazione penitenziaria trattiene gran parte del suo stipendio, per cui al lavoratore rimane in mano una paghetta, quando va bene.

 

Nel saggio Carcere e diritti sociali (2010) Giuseppe Caputo approfondisce questi temi in modo molto pertinente, in riferimento alla situazione italiana:

 

Il lavoro penitenziario, normalmente saltuario e dequalificato, è un ambiguo strumento di controllo che ha il solo obiettivo di offrire occasioni di svago che contribuiscano a mantenere la sicurezza e l’ordine in prigioni sovraffollate al limite del collasso. Neanche le retribuzioni per il lavoro penitenziario sono quelle previste dalla legge. (…) Quei pochi detenuti che lavorano in carcere percepiscono una retribuzione misera che li aiuta a mala pena a sopperire ai bisogni alimentari e sociali primari. Non riescono ad accedere alla maggior parte dei diritti previdenziali (assegni familiari, indennità di disoccupazione, pensioni) che spettano a tutti i lavoratori. Il periodo trascorso in carcere è per loro un tempo “inutile” durante il quale non riescono, anche se lavorano, a maturare i requisiti contributivi necessari per accedere alle prestazioni sociali. In alcuni casi l’esclusione dal welfare state durante il periodo della carcerazione può anche avere conseguenze irreversibili.

 

Il frutto di questa impostazione è, come abbiamo detto, una recidiva quasi totale, mentre un lavoro vero, che nasce da un’idea di persona che implica una precisa idea di società civile, abbatte la recidiva a percentuali enormemente più basse, da un 15/20% fino addirittura un 2/3%. I risultati, a beneficio di tutta la società, sono un risparmio economico impensabile, una maggiore sicurezza sociale, il rispetto delle normative nazionali e internazionali (evitando quindi di incorrere in onerose sanzioni) e soprattutto restituire ad un padre ed una madre un figlio che prima era perduto.

 

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