Alessandro D’Avenia racconta don Pino Puglisi ai detenuti di Padova

 

«Ma qui non sembra di essere in carcere». Era entrato solo a San Vittore fino ad oggi, Alessandro D’Avenia, il popolare autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue e di Cose che nessuno sa. Varca le soglie del call center, con 60 detenuti al lavoro. «Pensavo fosse l’amministrazione del penitenziario», dice. «Ma sono soprattutto i vostri sorrisi a farmi capire che qui c’è qualcosa di diverso».

 

A Padova il 19 febbraio lo scrittore palermitano è giunto per presentare il suo ultimo romanzo Ciò che inferno non è, dedicato alla memoria del beato padre Pino Puglisi, che fu suo professore al liceo. Poi l’invito in carcere, accettato non senza qualche titubanza. Non solo perché si trattava di un impegno in più. Ma perché venire proprio qui a parlare di omicidi di mafia (per quanto il suo non sia un libro etichettabile come “romanzo antimafia”) non era facile.

 

«Voi questo libro lo potete capire, perché la vostra è vita vera. Non come per tanti miei studenti», esordisce. E si mette a raccontare di quel prete di bassa statura, che insegnava religione al liceo classico dal 1978, ucciso il 15 settembre 1993 all’età di 56 anni, nel giorno del suo compleanno, anche se questo i suoi esecutori non lo sapevano. «Giorno della nascita e giorno della morte per i santi coincidono», spiega.

 

La mafia, appunto. A Brancaccio era, ed è, una presenza che si respira nell’aria. Quando Falcone fu ucciso, i ragazzini giravano in bicicletta per il quartiere urlando «Abbiamo vinto». E proprio dai bambini ha cominciato padre Pino. «Perché sapeva che l’umano c’è sempre, ce lo ha messo dentro Dio, anche se il male cerca di strapparcelo». È la nostra terra, l’umano, spiega D’Avenia. Una terra che può dare sempre frutti, se coltivata. E padre Pino era il contadino che arava, sarchiava, seminava, innaffiava. E quei bambini erano i suoi frutti. Per questo è stato ucciso. Perché, come racconta il suo assassino Salvatore Graviano, divenuto poi collaboratore di giustizia, «si portava i picciriddi cu iddu». Portava i bambini con sé. «Il suo sorriso diceva: “la tua vita è grande”».

 

Lo stesso sorriso che, come annota il cappellano del carcere don Marco Pozza all’incontro con oltre un centinaio di detenuti, padre Pino ha avuto anche negli ultimi istanti prima di morire. «Lui sorrise al suo assassino», conferma D’Avenia. «Mi è stato particolarmente difficile immedesimarmi con Salvatore Graviano. Trent’anni, cinquanta omicidi alle spalle, tre figli. Ottimo padre di famiglia. Don Pino gli ha sorriso mentre gli sparava sotto casa. E nei verbali lui dice “per quel sorriso non ci ho dormito la notte”».

 

Il pubblico ascolta in un silenzio assoluto. Si può sorridere sulla propria vita, sul proprio passato, incalza lo scrittore, perché l’ultima parola sulla nostra vita è un sorriso che abbraccia anche i nostri limiti, anche i peccati più gravi. «E questo lo possiamo fare tutti, anche senza l’eroismo di padre Puglisi, nelle cose di tutti i giorni. Da quando è venuto Gesù Cristo, a tutti è data la possibilità del cambiamento. I nostri “meno”, dopo il grande “più” che è la croce, possono diventare più”. Ma per fare questo occorre zappare la terra della nostra vita».

 

Guido, ergastolano, interroga lo scrittore sul senso della cultura, lui che ha cominciato a prendere libri in mano solo in carcere e così ha scoperto un universo di cui era stato privato. «Cultura è stare al mondo ampliandone le possibilità», risponde D’Avenia, anche nel montare una bici o sfornando una torta. «Non sono astrazioni». Sulle pareti del call center, dove si tiene l’incontro, ci sono i riquadri della Cappella degli Scrovegni. «Quando vedi Giotto, ti viene voglia di fare come lui. Ognuno ha il suo campo da coltivare. E Cristo per trent’anni su 33 ha fatto tavoli e sedie. Fare il falegname, rispondere al call center, costruire le biciclette è una cosa che ti divinizza, ti porta all’altezza della tua umanità, della tua dignità. Dobbiamo fare le biciclette come Dante Alighieri scriveva la Commedia, perché da quando Dio si è fatto uomo ogni attività umana è divina».

 

Altra domanda non facile dal pubblico. E questi pentiti con decine di omicidi alle spalle, siamo sicuri che sono cambiati sul serio, che non confessano solo per ottenere vantaggi? «Ci si può fare un’idea, io personalmente me la sono fatta», D’Avenia non dribbla la domanda. «Certo che con il cristianesimo la possibilità del cambiamento anche radicale di una persona è entrata di schianto nel mondo. Poi però solo Dio sa cosa c’è veramente nel cuore di una persona. Io, e credo chiunque altro, di fronte a questo resto sulla soglia. Solo dio e ciascuno di noi singolarmente. Però un cammino di cambiamento è una possibilità reale per tutti».

 

Ed è un cammino a cui non sta a noi mettere la parola fine. «Anche perché», conclude lo scrittore, «a me impressiona sempre che il primo ad entrare in Paradiso è stato un ladrone. Ha dovuto fare quel percorso tortuoso per giungere ad essere il primo in cielo insieme a Lui».

 

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